domenica 27 giugno 2010



La bambina con il secchio sulla testa è il simbolo di tutta la popolazione mondiale che non ha accesso all'acqua potabile.
La società moderna (occidentale) cominciò a crescere e prosperare quando furono trovate delle soluzioni per rifornire d'acqua delle concentrazioni sempre più grandi di persone e di rimuovere l'accumulo dei rifiuti prodotti dalle città, riducendo le epidemie.
Acqua sporca è uguale a malattia, dunque.
Si distinguono le malattie in:
- " waterborne diseases": provocate in chi beve acqua contaminata, specie da batteri derivati da escrementi umani. Le conseguenze sono disturbi intestinali e diarroici.
- "water-washed diseases": malattie provocate in persone che si lavano con acqua contaminata. Gli effetti sono cecità e disturbi diarroici.
- "water-based diseases": provocate dai parassiti che vivono in acqua o richiedono la presenza di acqua per parte del ciclo vitale. Le malattie provocate possono essere la dracunculosi (causata da un verme lungo fino a un metro, la filaria di Medina, che fuoriesce in maniera molto dolorosa dalla pelle della vittima) e la schistomiasi (un'infezione ematica che colpisce circa 200 milioni di persone in 70 paesi, con danni al fegato e all'intestino)



Questa immagine di Lewis Hine, insieme a molte altre da lui prodotte, hanno rappresentato la condizione del lavoro minorile in fabbrica negli Stati Uniti. Parliamo di soli 100 anni fa.





Questa immagine di Mathew Brady ebbe il merito, insieme ad altre, di rappresentare gli effetti della Guerra di Secessione americana agli americani stessi.
Finchè non vedi, non credi.




Jacob Riis rappresentò o meglio mostrò le condizioni di estrema povertà dei sobborghi più emarginati di New York.





Le tragiche immagini di Eddie Adams della Guerra nel Vietnam parlano da sole.
Tutti questi fotogiornalisti, definiti "muckraker", cioè coloro che amano pescare nel torbido, hanno catturato il "momento decisivo" (secondo l'espressione di Henri Cartier-Bresson).
I loro reportage, cioè le raccolte di un insieme di momenti decisivi, hanno prodotto dei cambiamenti reali.
Ma può il fotogiornalismo raccontare la Storia?
Si pone questa domanda David Elliot Cohen, il curatore del libro "Quello che conta" che ha raccolto alcune immagini decisive e i commenti di importanti giornalisti, per ripondere che
il fotogiornalismo non è il metodo migliore per raccontare la Storia (alcuni fenomeni come la corruzione non possono essere documentati con immagini), ma è uno strumento potente se "personale e mirato" cioè quando ritrae individui e contemporaneamente trasmette un messaggio universale.
In un mondo saturo di immagini, è difficile trovare un varco per scuotere le coscienze.
Eugene Smith dice:" Ogni giorno siamo sommersi dalla fotografia nel suo aspetto peggiore - finchè la sua patina di superficialità non minaccia di paralizzare la nostra sensibilità all'immagine".
Il grande merito di "Quello che conta" è di istruirci attraverso la vista, e di produrre una riflessione.
I temi affrontati spaziano da:
- Uomo contro la Terra (surriscaldamento globale, disastri ambientali, mancanza d'acqua)
- Uomo contro Uomo (genocidio, il tragedia del Darfur, la Jihad Globale, gli USA che seppelliscono i caduti in Iraq)
- Distribuzione della ricchezza (povertà globale, corsa ai consumi, lavoro minorile in Bangladesh, le spose bambine in Afghanistan, Nepal ed Etiopia, il prezzo della petrodipendenza)
- Uomo contro malattia (l'AIDS nella Africa Subsahariana, la malaria)

sabato 26 giugno 2010


L'installazione "Marea Nera - Jolly Rogers and the Seven Seas" di Michele Giangrande rappresenta l'attuale condizione di una umanità che si affida caparbiamente all'energia artificiale che fa muovere i sette ventilatori, simbolo dei sette mari. E' un richiamo forte, un monito alle spire di un vento piratesco, quello del profitto a tutti i costi, che gira solo in nell'unica direzione di pericolo e morte.
E' un canto ed un lamento per le acque e le creature del Golfo del Messico.
Possibile che nessuno riesca a fermare la Marea Nera?
Michele Giangrande è nato a Bari nel 1979.
Lavoro a Bari, Bergamo, Londra.
www.michelegiangrande.com (da visitare per comprendere come una sana critica sociale passi anche attraverso l'arte delle immagini)
In mostra presso l'associazione Entropie,
Locorotondo, Bari
sabato 26 giugno 2010

lunedì 21 giugno 2010







Due grandi movimenti si fronteggiano in "Prayers for Bobby", film che ripercorre la storia vera di Mary Griffith, fino a raggiungere un climax inevitabile:
da una parte, il desiderio materno di garantire a tutti i costi la Vita Eterna al proprio figlio, dall'altra, l'esigenza di capirsi e di accettarsi del figlio, Bobby.

Al centro del drammatica scontro, un tema dai riflessi multiformi: l'omosessualità.

Bobby è un ragazzo di vent'anni, pulito in viso, "puro di cuore", cresciuto all'ombra di una grande figura materna, ingigantita anche dall'esercizio quotidiano di una fede, esibita con la F maiuscola.
Bobby conosce a memoria i versetti della Bibbia, come un altro ragazzo potrebbe sciorinare la formazione dei giocatori della sua squadra del cuore.
L'affidarsi a Dio, è per Bobby, sinonimo di affidarsi alla sua stessa madre.

In questo rapporto, si insinua il dubbio dell'omosessualità: un dubbio che cresce, diventa vorace, assolutizza i pensieri e la vita di Bobby, con l'emergenza di doverlo risolvere a tutti i costi.
Anche al prezzo più alto di doversi allontanarsi dalla propria amata (e limitante) madre.

"Prayers for Bobby" è un film che, gettate sul tavolo queste premesse, fa lo sforzo di spiegare l'evoluzione dei suoi personaggi.

Il dilaniamento interiore di Bobby è reso attraverso scene veloci, sovrapposte, ritmicamente angoscianti.

La lenta riflessione della mamma Mary, portata per mano dalla vita stessa del figlio alla rielaborazione delle strutture portanti della sua concezione di vita,
è raccontata attraverso l'indugio che il regista Russell Mulcahy fa sul volto segnato dalle rughe attorno alla bocca e gli occhi: una specie di aratura del nuovo sentimento.

Il film vuole anche sottolineare come i percorsi più fruttuosi siano quelli comunitari: Mary non comprenderà l'omosessualità del figlio fin quando si ostinerà a cercare una risposta tutta al singolare nell'interpretazione letterale delle Scritture.
Si aprirà invece all'accettazione del figlio e di sé stessa, quando accetterà un mediatore (il reverendo Whitsell che fungeva da guida spirituale per i ragazzi omosessuali cattolici) tra sé e tutto il mondo di precetti in cui ha limitato Dio.

Un film da vedere perché genera riflessione (i casi di intolleranza verso gli omosessuali sono di frequente presenti nella cronaca) ed anche per ammirare la splendida prova di attrice di Sigourney Weaver: dalla voce, all'atteggiamento corporeo, alle sopra menzionate rughe di espressione, tutto concorre alla bravura di un'attrice che in questa prova diventa Persona.

domenica 20 giugno 2010

Morning in Karnout Village, Oil on Canvas, 60x80 cm


Late Autumn, Oil on canvas, 65x80 cm




Celebration, oil on canvas, 65x80 cm



Oriental Street, oil on canvas, 105x125 cm



Oriental bathroom, oil on canvas, 90x120 cm





Sarkis Hamalbashian è considerato uno dei più importanti pittori moderni armeni.
Creatore di un mondo personale, in cui i suoni e le tradizioni del passato si rimescolano ai
colori vivi del presente.
Non ama essere definito un raccontastorie, ma è indubbio che ami raccontare attraverso i suoi
quadri un'umanità in cui presente, passato e futuro sono paralleli.
Un'umanità che non si ritiene superiore,
ma strettamente correlata alle macchine, agli animali e agli angeli.
Un mediatore tra mondi differenti.
E' nato il 12 gennaio 1956 in Gyumri, Armenia.
La sua arte è stata influenzata dal Rinascimento Italiano, dalla Iconografia Russa, dalla
nuova avanguardia russa, dall'arte della miniatura armena e dall'arte post-moderna armena.
Ha esposto in Francia, America, Finlandia, Russia.

sabato 19 giugno 2010



Le case Magdalene (dal nome della prostituta convertita Maria Maddalena) avrebbero dovuto essere un luogo per ritrovare sè stesse,dopo aver perso la retta via.


Generare un figlio fuori dal matrimonio, avere atteggiamenti troppo disponibili verso i ragazzi, essere vittima
di una violenza sessuale: questi erano i comportamenti consideranti deviati in una società dall'alto profilo moralistico.
Alto ed apparente profilo moralistico, perchè proprio coloro che avrebbero avuto la pretesa di guidare verso il giusto dimostrano inevitabilmente la pochezza del cuore umano: avidità verso i soldi, goduria nell'umiliare, violenza, aggressione.
E' un pò questo il cuore di Magdalene: la storia di quattro ragazze a cui viene appiccicata addosso l'etichetta di pervertite, secondo i canoni morali imposti dalla Chiesa Cattolica Irlandese neglia anni '60.


Un luogo dove rinchiudere la vergogna: senza la volontà di comprendere i motivi e le storie personali di ognuna delle ragazze.
Una prigione emotiva, prima che sociale: con pochissimi momenti di riscatto personale.
E' un film del 2002, ma strettamente attuale, se pensiamo a tutte le forme di abuso documentate recentemente da parte di ecclesiastici.
In termini più generali, è un film sulla dura solitudine generata dai pregiudizi e da una moralità esibita come atto d'accusa e come strumento di controllo sociale.

Interessante anche questo documentario che pare abbia ispirato il regista Peter Mullan a sviluppare la storia del film:








Le "donne accartocciate" di Leonetta Marcotulli parlano dell'esperienza della riflessione, della compassione, del ricordo.
L'essere femminile è qui la porta, il canale che riconduce ad un mondo fatto di silenzi
da esplorare e rispettare.
In mostra presso le scuderie Estensi di Tivoli
dal 26 giugno 2010, ore 17

venerdì 18 giugno 2010
























Si può ritrarre un volto, un'emozione, una storia pur rappresentando i cambiamenti
continui dei protagonisti? Si può cogliere l'essenza di un'anima pur lasciando ampio spazio
all'interpretazione personale della vita altrui?
Credo sia in questo la forza sprigionante dai ritratti di Francesca Leone.
Racconto & Emozione si fondono per dire e lasciar sentire, in uno stile personale
e sublime.




mercoledì 16 giugno 2010

La storia di un popolo emigrato in Brasile che con la tradizionale cucina pugliese aiuta da anni migliaia di bambini.

Ci sono storie che meritano davvero di essere narrate. Perchè i loro protagonisti, raccontandosi, si fanno testimoni di un atteggiamento aperto e sorprendente verso la Vita.
Che li ripaga.


Una storia esemplare è raccontata nel documentario
"Le Mamme di San Vito", diretto da Gianni Torres.


Negli anni della massiccia emigrazione verso il Brasile,
anche un gruppo ben nutrito di polignanesi (abitanti di un
paese a sud di Bari, Polignano a Mare) decisero di partire per
San Paolo.


L'amministrazione locale (il Municipio di San Paolo), su espresa richiesta dell'Associazione Benefica San Vito Martire Polignano a mare,
donò un terreno, a patto che sullo stesso venisse costruito un
luogo di accoglienza per i bambini poveri di San Paolo.



La promessa venne mantenuta e nacque la "Creche de Sao Vito"
(dal nome di San Vito, il patrono del paese di Polignano),
un asilo nel quale ricevono assistenza medica, psicologica e ludica
circa 130 bambini all'anno. Il totale dei bambini accolti dalla
creche negli anni è di 18.000.



Per sostenere economicamente la crescita dei bambini, le
meravigliose donne di S.Vito hanno organizzato una mega "sagra"
(quella del 2009 era la 91esima edizione) in cui cucinare tutti
i piatti della tradizione pugliese, e polignanese nello specifico,
senza percepire alcun compenso.


Un piccolo particolare: sono tutte donne emigrate minimo cinquanta anni fa, la cui età va da un minimo di 65 anni ad 85 anni.


Una grande festa nel Bràs, il quartiere più italiano di San Paolo,
ma dal sapore internazionale: gli avventori sono infatti di varie
origini e paradossalmente gli italiani sono pochissimi!


Un solo cruccio: questa festa, entrata ormai nella tradizione della città di San Paolo (ripresa anche dalle televisioni locali in alcuni momenti delle14 notti in cui si svolge) rischia si scomparire. L'amore infatti, e lo spiritodi sacrificio delle "mamme" poco si addice alle nuove generazioni, che non avendo vissuto il prezzo insito nell'emigrazione, forse non comprendono pienamente il valore della gratuità di una grande azione collettiva, come è questa.


Il documentario, accompagnato dalle musiche di Vince Abbracciante,
presentato questa sera 16/06 alla festa di S.Vito a Polignano (peccato non esserci, sigh!), testimonia quali
frutti possa portare l'accoglienza che un paese ospitante produce
nei confronti dei propri immigrati, la riconoscenza che si traduce
in azioni concrete e il beneficio di cui può godere un'intera comunità
(in questo caso fatta di bambini) che viene dalla reciproca apertura
tra paese di accoglienza e persone che vi arrivano per vivere e lavorare
dignitosamente.

Aggiungo personalmente, purtroppo solo dopo aver visto il trailer e nonl'intero documentario, che è commovente vedere tanta passione e saggezzanegli antichi gesti delle mamme (mica è facile prepare bene le orecchiette a mano, eh!).

link: http://www.lemammedisanvito.com






Pretendere di vivere nel cuore di chi ami
come fosse dimora di una terra deserta
è droga

Scorre bruciante nelle vene

Logora la pelle

Irrigidisce i battiti

domenica 13 giugno 2010



Cosa può accadere quando un giornalista è in cerca di una storia?


Il motore iniziale del fim di Joe Wright parte da un'esigenza, che definirei fisiologica, di Steve Lopez, giornalista del Los Angeles Times, di trovare un nuovo argomento per un articolo.


Da un incontro del tutto casuale con Nathaniel Ayers, homeless innamorato della musica, inizierà per Steve un importante viaggio all'interno della solitudine dell'artista divenuto di strada.


L'incontro tra i due sarà complesso, tanto quanto la voglia di Steve di arrivare con la sua scrittura e il desiderio di Nathaniel di suonare per amore della musica.


Il rapporto tra i due personaggi del film è funzionale poi alla rappresentazione di quella città nella città, costituita da quartieri totalmente abbandonati,


dove si trascina la vita violenta ed arresa di circa 90.000 senza tetto.


Non è un film svago. Al contrario, è un film impegnato ed impegnativo. Perchè vedere un film sulla miseria, sul degrado fisico e morale dei suoi personaggi?


Perchè il degrado, oltre ad essere lì dove ci aspettiamo esattamente che sia, è nelle pieghe di un comportamento che sembra caritatevole.


E' nelle scuole che educano all'infallibilità. E' nello sperperìo di tanta vita umana, accompagnata dai suoi talenti nascosti. O non compresi adeguatamente.


Una nota particolare per l'interpretazione di Jamie Foxx. Un attore versatile, un artista totale.


Dall'indimenticabile interpretazione di Ray Charles, per passare alla versione avvocato determinato in "Giustizia Privata",


o giocatore di rugby arrogante in "Ogni maledetta domenica", solo per citarne alcuni, Jamie Foxx, si fa piccolo e grande insieme in questa interpretazione.


Ed attraverso, piccolissimi movimenti degli occhi, rende l'insondabile potere di comunione con la musica.

mercoledì 9 giugno 2010

Una canzone etica "bande de cochons": vi traduco un pò il testo.

"Ne dis plus mon pouvoir d'achat, dis mon pouvoir de choix"

Sull'onda dell'assonanza tra achat-choix (acquisto-scelta) si gioca tutto il tema centrale di

questa canzone, la quale parla di malnutrizione all'incontrario, cioè di chi si fa

dominare dal cibo, di chi chi mangia più di quello che il suo corpo è in grado di accogliere.

"Non dire più il mio potere d'acquisto, dì il mio potere di scelta".

"Si tu le client, tu es le roi, c'est que tu peux imposer ton choix!"

"Se tu il cliente, sei il re, allora sei tu che puoi imporre la tua scelta".

Il suggerimento del video è di African Reporters

domenica 6 giugno 2010



Il cuore di un artista è pungolato dall'altrui sofferenza,con una gradazione di intensità che necessita uno sfogo creativo per fluire ed oltrepassare.

Penso sia questo il nucleo pulsante di "Donne senza uomini".

Quando la regista iraniana Shirin Neshat, già affermata visual
artist, ha iniziato a cercare una storia da rappresentare,
era spinta dal proprio destino di esule, ma anche da quella
amplificazione dei sensi, tipica per un'artista, che permette
di cogliere e provare la più generale sofferenza delle donne
iraniane e, per osmosi, di tutto il popolo oppresso.

Questa storia, scritta da Shahrnush Parsipur, parte da un episodio
storico (l'intervento della CIA per far destituire il leader comunista
ed appoggiare la restaurazione dello Shah) infatti entra
nella quotidianità oppressiva di quattro donne diverse, per
estrazione sociale (la moglie di un generale, una prostituta,
due amiche del cuore) per raccontare il loro rapporto con uomini
troppo presenti, contrariamente al titolo.

Presenti per evidenziare le mancanze delle donne, i loro difetti, la non perfezione, i minimi scostamenti rispetto al ruolo prescritto, o anche solo per usarle.

Il rifugio per tutte loro sarà un giardino che avrà anche la
doppia valenza di luogo dell'esilio.
Qui, ognuna di loro ritroverà quel tassello mancante per riprendere
o sospendere del tutto il proprio cammino (il canto, un letto su cui
riposare, l'ascolto, il silenzio).



«Obatalà, dio del cielo. Chango, dio del fulmine. Ogun, dio della guerra. Yemenjà, dio del mare. Si riunirono e scelsero una donna. Quella donna nacque, crebbe e vide molto dolore. Divenne guerriera, per necessità. Per distruggere la sua forza, i nemici trasformarono il suo volto in un'icona pop. La sua faccia era dappertutto, anche nelle camerette degli adolescenti brufolosi. Anche nel museo degli eroi commercializzabili. Quel giorno, una donna anziana, ma stabile sulle gambe, entrò nel museo, si fermò davanti all'icona di lei da giovane, trasse un profondo respiro e, con la forza di un intero popolo, distrusse l'icona in mille pezzi vetrosi, i quali esplosero fino a migliaia di km di distanza».


I quattro dèi citati all'inizio del racconto rappresentano alcune delle principali divinità delle popolazioni yoruba, africani dell'attuale Nigeria i quali, insieme ai popoli di quelli che oggi chiamiamo Benin, Ghana, Congo e Sudan, furono le fonti di provenienza degli 11 milioni di africani importati coattamente nelle Americhe, negli arcipelaghi del Mar dei Caraibi, in Brasile, Colombia, Ecuador e Perù, tra l'inizio del 16° secolo e la fine del 19°. La donna simbolica del racconto è Angela Davis. Immaginata prescelta dagli antichi dèi dei popoli africani, sono sicura che essa rifiuterebbe questa mia interpretazione. Se una forza soprannaturale esiste e presceglie, è quella della Storia, mi direbbe. Conosciamo la Storia, dunque.

Continua a leggere l'articolo sulla rivista letteraria Samgha

sabato 5 giugno 2010



Sorvolando dolcemente una sinuosa ansa del fiume Po, in un suggestivo campo lungo che avvicina ed allontana dall'acqua illuminata dal sole ad occidente,
sulle note che echeggiano la ballata country dei Tin Hat,
entriamo con la protagonista Mara, come si faceva una volta ed anche oggi,
nel paesino inventato di Concadalbero, tra Veneto ed Emilia-Romagna,
in corriera blu.
Il borgo così piccolo ed ovattato, tra la nebbia che sfuma e nasconde
la quotidianità lenta dei suoi abitanti e la regolarità degli schemi sociali,
viene squarciato dall'arrivo di una maestra solare e giovane,
mentre sullo sfondo dei discorsi degli abitanti immaginiamo
la vecchia maestra, quella che ha cresciuto tutti in paese ed ora viene sostituita, impazzita,
fare atti sorprendenti.
Ma l'apparente immobilità dei luoghi e delle persone ha già subìto
l'alterazione dell'equilibrio. Tutti sono attratti da Mara, per bellezza
e per novità. E tutti la spiano.
Hassan, il meccanico tunisino.
Amos, il tabaccaio sborone.
Giovanni, il genietto del computer che inizia a leggere le sue email di nascosto.
La vita di paese che viene raccontata da Carlo Mazzacurati è un ritratto di
ciò che era e di ciò che è la provincia italiana: i vecchini seduti al bar gestiti
dai cinesi, le persone che guardano obliquamente tutti i movimenti altrui, l'immigrato
forse integrato, l'arricchito che si dispera per un graffietto al suv,
il veggente che legge le carte in tv,il dialetto come lingua principale.
Questo scenario impone i limiti del comportamento di ogni persona, i quali
se non rispettati generano conseguenze inaspettate.
Cosa può succedere infatti se Hassan si innamora di Mara?
E se Mara si lascia affascinare dal mondo che Hassan porta con sè?


Le risposte a queste domande sono tutte incluse nelle premesse inziali
di questo film: nei pregiudizi più forti del rispetto che Hassan si è
guadagnato negli anni all'interno della comunità ed in quella sorta di
pigrizia provinciale che emette decreti sintetici, superficiali come
i buongiorni mattutini di cortesia, frutto della giusta distanza da
mantenere e non valicare.


Ma, al contrario, quello che rimane dopo la visione del film è una sensazione di intensità: della passione, dei razzismi,
dei visi (accurata la scelta degli attori:Ahmed Hafiene, Valentina Lodovini, Giuseppe Battiston, Giovanni Capovilla),
delle voci, dei uoghi (suggestiva la fotografia di Luca Bigazzi, soprattutto nella parte inziale),
dei crimini, della voglia di appartenenza, e della voglia di liberarsi dell'appartenza.


Un film descrittivo il quale, avvalendosi dell'espediente del giallo di provincia, ci spiega come la società sta cambiando, le resistenze che incontra il cambiamento, e la potenza che distrugge apparenze e barriere del flusso costante della vita.

 

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